Speciale Apicoltori - n. 565, marzo 2007
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Gianluigi Brizzolara
Apicoltori si nasce
di Massimo Ilari, Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Gianluigi
 cognome  Brizzolara
 età  43
 regione  Liguria
 provincia  GE
 comune  Borzonasca
 nome azienda  Miele dell’Alta Valle Sturla
inizio attività  1979
arnie  160
 apicoltura  Nomade e Stanziale
tipo di api  Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Castagno
Erica
Millefiori
Acacia
 miele prodotto  25 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
Sono nato e ho sempre vissuto in una zona della Liguria, a metà strada tra il mare e le montagne dell’Appennino, dove la gente, che non è emigrata, ha sviluppato un particolare attaccamento alla propria terra. Attaccamento fatto di rispetto, di orgoglio, di gelosia per le proprie cose, anche le più insignificanti, perché da noi tutto costava fatica, anche il solo spostarsi. Dai miei nonni, che vivevano coltivando il loro terreno, rigorosamente terrazzato, e allevando bestiame, ho imparato ad apprezzare quella vita in “salita”, a rispettare la natura seguendone i ritmi, a dare il giusto valore ai prodotti genuini, che nascono da un certo territorio e che ne costituiscono la carta d’identità, assieme alla storia delle popolazioni, che lo hanno abitato. Non si diventa apicoltori per caso, direi che un po’ lo si nasce, anche perché affrontare le prime dolorose punture delle nostre amiche presuppone una passione particolare per loro, in mancanza della quale, si rinuncerebbe subito ad entrare in quel mondo affascinante che è l’apicoltura. Non mi ero mai interessato di api, quando nell’inverno del ‘78, tagliando con mio padre un vecchio castagno, trovammo che uno sciame ne aveva occupato l’incavo, che nei castagni maturi può essere abbastanza ampio. Favoriti dalla bassa temperatura, lo tagliammo di misura per farne un bugno villico, le api così riuscirono a passare l’inverno. La primavera successiva, dopo aver imparato quasi a memoria lo Zappi - Recordati, tentai un travaso diretto come da manuale, ma il tentativo fallì, perché la regina nel passaggio si perse. Non contento acquistai due bugni villici da un contadino (eravamo in pre-varroa, infatti la prima varroa la osservai nella primavera del 1985, e i bugni villici si trovavano ancora numerosi nelle nostre campagne) e tentai stavolta un travaso indiretto con un cilindro in griglia di mia ideazione. Le regine si salvarono, mi trovai con i miei primi due alveari e un bagaglio di informazioni sull’organizzazione interna di una famiglia che nessun corso di apicoltura mi avrebbe potuto dare. In questo inizio fui favorito dalla passione dimostrata dai miei genitori, anche loro neofiti, che mi aiutarono e continuano a farlo, sia in campo che in laboratorio. La mancanza di un vero maestro non influì più di tanto su questo appassionato inizio, anche perché, avevo cominciato nel modo giusto: che è quello di infilare le mani dentro l’alveare, di superare il timore per le punture e di non aver paura di sperimentare cose nuove anche di propria ideazione; in questo secondo punto, sono sempre stato favorito dal fatto di avere a disposizione una falegnameria ben attrezzata, dove poter tramutare ogni idea in oggetto e poterla mettere in pratica al più presto possibile: autocostruzione di arnie, telaini, attrezzature varie, una faticaccia, ma investimenti limitati e un senso di autonomia confortante, anche perché all’epoca, nella mia zona non esistevano rivenditori di materiale apistico: era come se l’apicoltura non esistesse
 
Per quali motivi ha iniziato?
All’inizio pensavo di produrre il miele necessario al fabbisogno della mia famiglia (l’obiettivo era quello di poter consumare, il più possibile, cibi genuini), poi gli alveari sciamavano e dato che il posto c’era, l’apiario aumentava di anno in anno, (com’era facile allevare senza varroa!), la vendita iniziò quasi per caso. Però, mi resi conto subito, che il cliente apprezzava il mio prodotto e anche questo fu incoraggiante. Malgrado queste buone premesse, l’attività di apicoltore rimase e rimane tuttora part-time. Infatti, gestisco un’attività commerciale di vendita al dettaglio, ormai da diciassette anni. Direi che la figura di un vero apicoltore professionista, (che da noi non è mai esistita), dal quale trarre spunti e incoraggiamenti, mi è mancata più nel corso degli anni che all’inizio, anche perché le varie difficoltà, varroa in primo piano, raccolti scarsi, mancanza di interesse da parte dell’amministrazione pubblica (non ho mai avuto accesso a nessun tipo di finanziamento per l’acquisto di materiale), mercato sempre instabile, patologie ipotizzate non mi hanno mai permesso di compiere il vero salto di qualità, ossia di dedicarmi completamente all’apicoltura. Durante questi anni ho fatto esperienza nei vari campi nei quali si articola l’apicoltura: allevamento regine con selezione, nomadismo a lungo e breve raggio, produzione di derivati dal miele (idromele, distillati), produzione di propoli, cera, sino ad arrivare alla certificazione biologica dei miei prodotti, l’ultima soddisfazione in ordine di tempo. Tutto questo lavoro, purtroppo, è stato compiuto in fretta, rubando tempo all’attività principale, la quale ha limitato sì la professione di apicoltore, (negli anni con un’abbondante nascita di funghi rischiavo di trattare le api a settembre), ma da un altro punto di vista ha fornito risorse alla stessa (posso fare nomadismo, spostando 60/70 casse per volta, con poca fatica grazie alla sponda idraulica, perché uso l’autocarro del negozio). La domanda doveva forse essere questa: “Perché non hai scelto questa strada?”. In ogni caso, penso che sia necessario a chi legge queste righe, inquadrare la situazione del nostro territorio dove è abbastanza difficile trasformare una vera passione in una vera attività economicamente indipendente.
 
Cosa vuol dire avere una passione per l'ape?
Vuol dire vivere a stretto contatto con questo insetto (personalmente ho le arnie in prossimità della casa e non ho mai avuto problemi di convivenza, come se anche loro si abituassero ai nostri movimenti e a quelli degli animali domestici). Ciò significa, da una parte, trarne un beneficio psicologico: in apiario dimentico tutti i problemi quotidiani; dall’altra poterne osservare ogni tipo di manifestazione e cambiamento durante le stagioni, tanto da riuscire a capire le strategie che riescono a mettere in atto per la sopravvivenza. Solo imparando ad osservare le famiglie è possibile compiere delle azioni che possono favorirle e questi accorgimenti non si apprendono dai manuali, perché ogni zona ha il suo clima, il suo ceppo di api; persino all’interno dello stesso apiario, gli apicoltori ben lo sanno, si hanno condizioni ed esposizioni diverse che portano, se non capite bene, a delle azioni inopportune e a degli insuccessi. Se qualche decennio fa si potevano allevare le api senza una profonda cognizione della loro organizzazione questo ormai non è più possibile, perché l’avvento di nuove malattie, i cambiamenti climatici, inverni miti ed estati siccitose, stanno obbligando la nostra ape a cercare nel proprio DNA delle soluzioni ai nuovi problemi ambientali. Il nostro compito è quello di seguirle e di capirle, senza affidarci troppo ai prodotti chimici che tanto danno hanno già fatto.
 
Che difficoltà si incontrano nella sua zona?
Direi che il territorio dove allevo le mie api, dal punto di vista ambientale, è uno dei migliori che un apicoltore, che voglia ottenere un prodotto sano, si possa augurare: i due comuni dove opero contano 3200 persone sparse in 185 Kmq(!); qui non si pratica agricoltura intensiva e non esistono concentrazioni industriali, le acque sono pulite e l’aria è salubre. In definitiva, direi che una certa “arretratezza” ha giovato alle persone che hanno creduto in questo territorio e si sono ritagliate una qualche attività in esso. La ragione? Secondo il mio modo di vedere, la qualità della vita è altissima anche grazie all’assenza della confusione tipica del traffico e alla “invadenza” della natura che prepotentemente entra nella vita di ciascuno di noi. La mia scelta di operare nel biologico mi è stata dettata non dal desiderio di offrire un miele migliore, perché il mio modo di produrre non è cambiato di una virgola rispetto a due anni fa, bensì dalla voglia di identificare la mia attività con un ambiente che è già di per sé si può considerare “bio”, ed agganciarmi così al tentativo di far conoscere questa parte della Liguria, anche grazie all’introduzione dell’agricoltura biologica nelle nostre vallate. Le difficoltà maggiori? Sono legate al territorio montano che non consente produzioni elevate: la temperatura varia notevolmente nel periodo primaverile e le famiglie si sviluppano più lentamente rispetto alla costa. Poi, nel periodo di raccolto, la presenza di vento e un microclima particolare, dovuto alla vicinanza di rilievi abbastanza elevati, fanno il resto e non ti permettono tutti gli anni di avere dei monoflora primaverili (erica e robinia) decenti. Da questo è sorto il bisogno di emigrare in Piemonte, per poter produrre della robinia come si deve e soddisfare i gusti di una parte della clientela. Il territorio montano, inoltre, crea notevoli difficoltà per trovare delle postazioni in piano, da poter raggiungere con mezzi meccanici, e quando le trovi, non è detto che l’esposizione sia delle migliori o che l’accesso (sempre che ti diano il permesso di farlo) non frani alle prime piogge. Con queste difficoltà, il miele prodotto nel mio territorio è sì di alta qualità, ma costa molta più fatica, rispetto ad un miele prodotto in un ambiente meno in “salita”.
 
Problemi nella commercializzazione?
Con le quantità di miele che produco non trovo grosse difficoltà a venderlo. Negli anni ho instaurato un rapporto di fiducia con i clienti, ai quali cerco di dare la maggior parte di informazioni possibili quando vengono a comprarlo in negozio oppure a casa; il mio miele è ben conosciuto anche nei territori limitrofi dove ho attivato una rete di piccoli esercenti che lo rivendono. L’unica incongruenza la ritrovo nel fatto che la vendita del mio miele con la certificazione biologica, per adesso, e dopo solo una stagione di vendita, non mi abbia ancora dato i riscontri sperati e non sia andata al di là della pura soddisfazione personale. Non mi lamento, comunque, perché la situazione vendita miele nel 2006 è stato un problema per tutti.
 
Pratica il nomadismo?
A mio modo di vedere il nomadismo è il culmine dell’attività di un apicoltore, la pratica più difficile dell’allevamento. Non è solo trasportare delle arnie da un territorio ad un altro, ma parte l’anno precedente con la preparazione delle famiglie, la scelta e lo studio delle postazioni. In questa pratica ti possono succedere le cose più strane, ogni anno ti arricchisci di esperienze nuove, non sempre piacevoli; è talmente importante che si potrebbe farne benissimo a meno: ma chi te lo fa fare a caricare, di sera, un camion con 60 famiglie, percorrere 100/150 km di autostrada irti di difficoltà: polizia, blocchi della circolazione, la paura di un incidente. E ancora, scaricare, sempre che non si rimanga impantanati, alle due di notte come un ladro e rientrare a casa quando albeggia. Di certo è un incosciente bisogno di sfidare la propria resistenza fisica nell’inseguimento di un Eldorado che è costituito da un raccolto straordinario. Però quanta soddisfazione a portare indietro melari strapieni di miele (quando lo sono). Tutto questo ti fa sentire un apicoltore vero. Personalmente ho praticato il nomadismo sin dall’inizio dell’attività, prima con spostamenti a breve raggio nella mia vallata, per produrre millefiori prativi o lupinella. Da dieci anni ormai, sposto gli alveari in Piemonte, per la raccolta della robinia, e al ritorno tento un “salto” sulla stessa essenza rimasta a circa 600 m di altitudine, con alterni risultati.
 
Un Apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Non credo che ci voglia una conoscenza così approfondita, penso che l’esperienza e la conoscenza delle essenze mellifere della zona dove si opera siano più che sufficienti, anche perché alla produzione di un determinato miele e di conseguenza alla sua qualità concorrono moltissimi fattori: anticipo o posticipo della fioritura, concomitanza di altre fioriture che possono diventare appetibili, forza delle famiglie, microclima, esposizione delle arnie, momento della smelatura. A queste incognite può rispondere solo un apicoltore che racchiude in sé la sintesi di un bel po’ di esperienze; malgrado ciò si possono sempre avere delle sorprese, soprattutto in alto, dove lo sviluppo estivo di certi fitofagi può dare dei risultati insoliti e spesso non graditi. Penso che un aspetto da non sottovalutare è dato dalle conoscenze di analisi sensoriale, che ogni apicoltore dovrebbe farsi col tempo, per una miglior valutazione del proprio miele; spesso è inutile intestardirsi sulla produzione di un monoflora, quando si può ottenere un ottimo millefiori. Tali conoscenze servono in tutte le fasi della produzione, dalla scelta della postazione, al momento dell’etichettatura che è uno dei sistemi per comunicare al consumatore che il nostro prodotto è genuino e di conseguenza non può essere perfettamente identico tutti gli anni. E qui sta la bravura del produttore che deve in qualche modo prevedere se il suo castagno cristallizzerà o l’acacia ombreggerà in primavera e di conseguenza informare il consumatore che è il primo giudice del nostro prodotto.
 
Che tipo di Apicoltura conduce?
Il 2006 è stato il mio primo anno da produttore biologico. Mi ha dato una grossa soddisfazione il fatto di aver trascorso solo un anno in conversione, di non aver dovuto cambiare tutti i telaini: nella mia cera da nido le analisi non hanno riscontrato residui chimici da trattamenti precedenti. E vi assicuro che non è una cosa da poco, perché il fatto che un’azienda come la mia, che da oltre vent’anni lotta contro la varroa e altre patologie, che è passata attraverso vaporizzatori, strisce, stecche di legno, gocciolamenti vari, pannispugna, polverine per cani, resistenze ai principi da parte dell’acaro, vuoti legislativi che obbligavano l’apicoltore ad arrangiarsi pur di salvare il suo patrimonio, abbia un substrato pulito è un bel risultato, dovuto anche, non da ultimo, all’onestà e alla precisione di chi, sin dagli inizi, mi ha lavorato i fogli cerei . Non capisco l’ostilità di tanti colleghi, che praticano il convenzionale, nei confronti del “bio”. Nel mio caso non è solo un’aggiunta all’etichetta per far mercato, bensì è la convinzione di chi, da sempre, ha considerato i prodotti chimici armi da usare con moderazione e comunque non risolutivi. Sono convinto che tutto il miele prodotto dovrebbe essere biologico, a patto che noi apicoltori ci schierassimo tutti, per primi, dalla parte del rispetto della natura (con questo intendo anche la salvaguardia della nostra razza di ape e dei suo ecotipi), consapevoli che ogni piccolo cambiamento ambientale può farci soccombere come allevatori. Di conseguenza considero il “bio” come una specie di filosofia di vita, che ti deve condizionare nelle scelte di tutti i giorni, e favorire una coscienza ambientalista nei consumatori che con le loro scelte possono invertire certe tendenze che ormai sembrano cristallizzate.
 
Cosa direbbe agli Apicoltori che usano antibiotici?
La risposta è contenuta nelle precedenti. Come esperienza personale posso dire di aver avuto casi di peste americana e di averla risolta con un attento controllo delle famiglie e con la distruzione di quelle malate, eppure erano tempi nei quali i sulfamidici si trovavano anche dal droghiere. Facendo i dovuti scongiuri, non vedo peste nei miei apiari da 15 anni, favorito anche dal fatto che ho un ottimo rapporto con gli altri piccoli apicoltori della vallata: collaborazione e scambio di informazioni “sincere”.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
Ho cercato nel tempo di utilizzare dei sistemi per rendere meno faticoso il lavoro, ad esempio paletizzando i melari in apiario, sfruttando la disponibilità della sponda idraulica da 10 q presente sul retro del mio autocarro e di una piccola motocarretta con la quale posso lavorare direttamente dietro agli alveari. Per il nomadismo non uso particolari dispositivi, lo scarico lo faccio a mano, oppure utilizzando la motocarretta, sempre coadiuvato da un altro amico apicoltore e dall’uso della sponda che è poi lo strumento che ci permette di scaricare, in poco tempo, salvandoci anche un po’ la schiena. Negli anni ho cercato di migliorare questo lavoro semi-manuale introducendo l’uso di arnie senza portichetto (potrei caricarne anche un terzo di più), costruite in modo tale da aver per fondo solo la griglia tenuta dai due piedi e con l’apertura a metà della cassa. In questo modo riesco ad avere delle arnie facili da costruire (è come realizzare un melario più alto col fondo grigliato), e molto più leggere, con un certo sollievo delle nostre schiene e della portata dell’autocarro.
 
Come lotta contro la varroa?
Da 15 anni utilizzo sempre lo stesso protocollo: tampone estivo, appena dopo la smelatura del castagno, che da noi si fa dopo il 20 di luglio, utilizzando prodotti a base di timolo acquistati o preparati in casa; trattamento invernale in assenza di covata (periodo che da noi dura da novembre sino a metà gennaio) con acido ossalico gocciolato o sublimato. Questi due cicli sono seguiti da conteggi a campione delle varroe cadute: ti fanno rendere conto della situazione, anche perché non tutti gli anni sono uguali e i prodotti “naturali” funzionano se usati con una certa consapevolezza del livello di infestazione e il pericolo è dato dalla reinfestazione e dal saccheggio. Dall’anno scorso ho convertito un apiario allo Spaziomussi®, distanziando i telaini, come mi ha spiegato lui stesso in un incontro qui a Borzonasca e sto cercando di farmi esperienza in questa metodologia così controversa che presuppone un’attenta valutazione dei vantaggi e degli svantaggi che non si può avere in una sola stagione di sperimentazione. Secondo me, una dote principale di un allevatore è quella di avere il coraggio di provare sulla propria pelle certe metodologie, di non starsene solo sui giudizi negativi o positivi che si leggono, anche perché gli apicoltori sono costretti, loro malgrado, ad improvvisarsi ricercatori per ottenere dei risultati originali, e con la consapevolezza che, comunque vadano le cose, saranno sempre loro a pagare di persona.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Ricapitolando cose già dette, in Liguria non funziona il sistema distributivo dei pochi contributi che ci spettano dalla Comunità Europea (sono pochi anche perché noi apicoltori liguri non denunciamo o denunciamo in parte gli alveari). Infatti vengono affidati alle Associazioni e all’apicoltore singolo, che potrebbe avere dei programmi seri, non tocca quasi niente. La ricerca in apicoltura funziona male per la mancanza di stanziamenti, abbiamo un infinità di nozioni sulle molecole che usiamo già nella lotta alla varroa, sappiamo perfettamente che il timolo funziona se è caldo e non funziona se è freddo. Ma non sarebbe ora di trovare qualcosa di originale, anche per preservare la vista agli apicoltori che la stanno perdendo a furia di contare varroe per rendersi conto se un trattamento è stato efficace oppure no? Per quanto riguarda il nostro miele italiano, prodotto seguendo regole e controlli piuttosto rigidi, non è certo giusto che venga equiparato dal mercato a miele di importazione dalla dubbia origine, un prodotto con requisiti igienici discutibili. Quindi il mercato ha bisogno di regole uguali per tutti.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
Un’altra cosa che funziona bene è l’ape stessa, che con le sue strategie di sopravvivenza, collaudate nel corso dei millenni, riesce ad adattarsi alle più diverse situazioni: è come se, da una parte rispettasse un copione di comportamento, sperimentato da tempo, che la induce a comportarsi sempre allo stesso modo, e dall’altra fosse in grado di adattarsi ai cambiamenti esterni con la capacità di trasmettere questa acquisizione alle generazioni future (con quale meccanismo?). Faccio due esempi. Il primo è questa osservazione: nell’inverno mite di quest’anno, nelle famiglie a media concentrazione di varroa e ben popolate, il blocco della covata è iniziato e finito all’incirca nelle stesse date dell’inverno 2005/06, con la differenza che quest’anno la temperatura è stata molto superiore e le api hanno raccolto polline per tutta la stagione (prima il nespolo poi il nocciolo in anticipo). E’ come se si rendessero conto dell’eccezionalità della stagione e non fosse per loro conveniente allevare covata in anticipo, rimanendo sempre fissa la data del primo importante raccolto (erica). Il secondo esempio viene dalla mia esperienza di quando ho mutato le distanze, nell’arnia senza portichetto, tra il fondo della cassa e i telaini,passando da cm 2,5 a cm 4,5 : molte famiglie hanno provato a costruire degli interfavi allungati verso il fondo,cosa che non si è più ripetuta negli anni successivi. Queste due semplici osservazioni, che rimangono tali finché qualcuno non riesca a spiegarne la trasmissibilità da una generazione ad un’altra, mi fanno pensare che l’ape abbia in sé le capacità per superare molti, e apparentemente nuovi, cambiamenti delle sue condizioni di vita, comprese anche patologie vecchie e nuove, purché l’uomo non si intrometta troppo.
 
Cosa rappresentano le Api per lei?
Una grande passione che non si è mai spenta, anche nei momenti di grande sconforto. A proposito di ciò vorrei raccontarvi un episodio di grave vandalismo che ho subito nella primavera del 2001. L’anno precedente avevo perso molte famiglie per varroa, dovetti quindi nell’estate dello stesso anno formare un certo numero di nuclei per tamponare le perdite. L’invernamento procedeva bene, quando mi venne la brillante idea di spostare i nuclei sulla costa, per accelerarne lo sviluppo, grazie all’incipiente fioritura dell’erica. Trovai, in un paesino sulla costa, una postazione a picco sul mare, una conchetta riparata e calda. In accordo col padrone liberai il terreno dai rovi e vi trasportai 50 nuclei che in breve tempo, grazie alle condizioni climatiche favorevoli, furono pronti per il travaso nelle arnie più grandi. Qualche giorno dopo il travaso, mi telefonò il Vigile del paese dicendomi che c’era uno sciame sul campanile e api sparse in tutto il paese: partii immediatamente intuendo la situazione. Lo spettacolo che mi si presentò fu allucinante: tutte le casse erano state rovesciate e una parte gettata anche nella scarpata; sentii un misto di rabbia e di sconforto, pensai subito che quella sarebbe stata la mia ultima avventura con le api: prima il danno della varroa, adesso quello dell’uomo. Ma fu solo un attimo, incrociai lo sguardo con quello di mio padre, ci capimmo al volo: gli chiesi se aveva portato la corda per recuperare le arnie cadute sugli scogli! In quel momento capii che non avrei più potuto far a meno delle api,e che questa era un esperienza in più che doveva capitare prima o poi, tanto per non farci mancare nulla.
 
Aspettative future della sua attività?
Spero solo di poter dedicare più tempo alle api, per poter fare le cose con un po’ più di calma, e soffermarmi sui risultati e sulle osservazioni con la mente sgombra da altri impegni impellenti (un sogno?). Inoltre mi sto impegnando a valorizzare il miele prodotto in modo stanziale nella mia vallata, ossia millefiori e castagno, anche perché percorrere 4000 km l’anno per il nomadismo non è una cosa molto congruente con la mia filosofia “bio”.
 
 
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Gianluigi Brizzolara
Gerardo Bigotto, Presidente dell’ALA Associazione Ligure Apicoltori
 
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